DIMENSIONE ANIMA

Quasi quasi mi faccio mussulmano
Papa Bergoglio, tu sei pio e buono,
ed io sono antipatico e cattivo,
ma mi stai dissacrando il Paradiso;
non è un luogo da favola, tu dici,
né un fantastico incantevole giardino.
E’ solo poca cosa.
Ma vuoi mettere
la splendida magnifica promessa
dei nostri concorrenti mussulmani
di un Eden di delizie, con l’aggiunta
di settantadue Vergini?
Ma allora
quasi quasi mi faccio maomettano…
Prima o poi ci darai il comunicato
che tu hai recentemente constatato
che il Dio ch’esiste è il loro, e non il nostro.
Papa Bergoglio,
ma tu, sei cristiano?
9 novembre 2017

L’anima a nudo

La verità che si sa è un enigma,
la sviscero – o tento di farlo -,
poco è il tempo per mettermi a rapporto,
ci vuole tatto e genio.
Però a volte,
di sera, nell’ora che si dedica a sé stessi,
cerco di appartenermi interrogandomi
tra le pieghe dell’Io, e mi confesso,
messa a nudo l’anima,
e m’ assolvo
con un paio di Pater, Ave e Gloria.
È un pellegrinaggio doveroso
nello spirito dell’Io, un’incursione
oltre i confini della conoscenza,
un anticipo di morte.
Ma incruento,
come ci si confessasse tra amici.

Amo le cose che non sono

Non amo che le cose che non sono
e che non possono esistere, son cose
che vivono la loro inesistenza
tranquillamente, e noi non le vediamo,
esistono pazienti in muta attesa
d’esistere pure loro. E intanto stanno
placide e invisibili tra noi,
senza dirci né chiederci mai nulla,
col semplice stupore delle cose
che sanno di inesistere, e sorridono
coi sorrisi invisibili delle cose
che tentano di dirci qualche cosa,
chissà, che pure noi non esistiamo,
forse, né più né meno come loro,
che si è pure noi cose che non sono.
9 novembre 2017

Io o non io

Io non so se io sia io o un altro,
un altro dentro me in cui convivo,
un mio altro io di carne, ossa, sangue,
o un io anima, etereo, un io eterno,
da percorrere di dentro in un arcano
peregrinare quotidiano fino a sera.

Un incantevole fascino del niente
il mio in me celato, il mio di dentro?
Io che parlo, che grido, piango e rido,
o io la voce, il grido, il pianto, il riso,
io l’effetto e non io la causa ?

Nulla di me saprò, nulla di nulla,
un’ombra che insegue la sua ombra
cercando il sole, e non si sa che sia il sole.

EX ABRUPTO

i provinciali

Qui da noi non capita mai nulla,
nulla che ci tramandi alla Storia,
per meglio dire ai posteri. Ogni giorno
ci si guarda crescere e invecchiare
con la puntigliosità del notaio
che mette a scheda e segna sul registro
i fatti inaccaduti, indifferente
per chi e percome suoni la campana
( per noi, che si è in provincia, il campanello ).
Siamo dei provinciali, e questo è vero,
e ognuno con la sua piccola nevrosi,
niente da mettere sui giornali,
nulla su cui potere costruire
una cronaca non dico nera,ma almeno rosa
( ci basterebbe un nulla, un fatterello).
Una noia che si coniuga al tormento
di una monotona vita quotidiana:
da casa al bar, dal bar al tabaccaio,
se capita in latteria, sì, poca cosa,
ma è come fare il periplo del mondo,
o giù di lì, e, senza esagerare,
turisti di una microgeografia
da quattro soldi, un rito da calvario.
Qui basta che ci scappi uno sbadiglio,
e ci pare che accada chissà cosa,5
e ci si complimenta e grida: Bravo!
Poi si corre a riferirlo ai giornali.


Al servizio della vita

Sono il divenire e il divenuto
anch’io di questo tempo d’orologio,
anche se la vita è spesso una non-vita.
Eppure a volte tento
una via diversa,
un viottolo che mi porta a un altro tempo,
dove non batte ora d’orologio
e l’età non la si conta in anni
fatti o da fare,
perché è eterna,
ha un tempo atemporale, senza date,
senza questo empio e sacro tribolare.

È a me, e non ad altri, che io chiedo,
pietà, obbedienza e sacrificio,
è a me, e solo a me, che devo imporre
d’essere
al servizio della vita,
anche a costo d’esserne umiliato
e messo in croce.
Son io che ho da decidere
di me, se appendermi a una croce
o farmi festa.
Per questa sofferenza
di vivere la miseria del mio tempo
come un eroe,
e invece ho l’impressione
di essere, non so, un barbagianni.
2001- aprile 2006

LA MIA PICCOLA ETERNITA’

Il mal di denti
Tu lo chiami dettaglio.
Ma è una storia,
piena, per me, di dignità e rispetto,
la nostra piccola vita d’ogni giorno
con tutte le sue monotonie consuete:
una fabbrica di cose sciocche e futili,
spesso,
il tran tran di tutti i .
dove ogni cosa ha sempre la sua storia
d’accudire con cura e con amore,
perché Dio ce lo chiede, anzi lo impone
( un tavolo, non so, che zoppica, la chiave
di un’anta che non gira, la caldaia
che fa un rumore e perde
o un mal di denti ).
Anche le piccole cose son di Dio.
Solo il mal di denti,
quello no, è nostro.


Il tempo è un galantuomo

Non fa freddo qui da noi, in inverno,
e anche se a volta brina o c’è la neve,
ciò che non manca è di certo il sole
e il cielo è di un azzurro straordinario
e vai coi tuoi compagni lietamente
e, chiacchiera dopo chiacchiera, il tempo,
dicono, non passa mai, è eterno.
Ecco che a un tratto scendono da un viottolo
un uomo ed una donna: hanno due figli,
un maschio ed una femmina. Discendono
uscendo da una fitta ancora spoglia
nuvola di frassini che domina
il piccolo villaggio di Vallunga.
Vanno giù lieti e parlano di cose
che solo io, non altri, ho a conoscenza,
fanno dei nomi che mi sono cari,
di amici e famigliari, e parlottando
sento che lei, la moglie, fa il mio nome,
il mio, chiamando lui, il marito.
Discendono nel sole del meriggio
leggeri, come avessero le ali
ai piedi, e andassero volando
a fior di terra, bassi, tra i cespugli
di more che si affiancano al sentiero.
Non so se sia io colui che sale,
oppure se sia io quello che scende,
se sia io che penso o è lui che pensa,
non so chi di noi due porti il mio nome.
Gli grido di aspettarmi. Ho da parlargli,
da chiedergli chi sia, chi la sua donna,
chi quei due figli che gli stanno a fianco,
ma più che lo rincorro, più mi sfugge,
scende sparendo tra eriche e mirtilli.
Erano marito e moglie con due figli:
il tempo che mi toccherà espiare,
non so perché, me li ha portati in dono,
una sosta, per poi ricontinuare,
e andare scomparendo anch’io nel viottolo,
ma senza fretta, senza ansia. Il tempo
sa cos’ha da fare, è un galantuomo.

VOGLIA DI POESIA


Il Congresso Internazionale dei Duci

Al Congresso Internazionale dei Duci
che quest’anno si celebra in Friuli
a fine settimana, manca il Duce,
l’hanno appeso pei piedi, e non può scendere
visto com’è, impiccato alla rovescia
a testa in giù. Dicono sia stufo
di assistere agli stessi roboanti
noiosissimi discorsi, e poi, tra l’altro,
si pende mica male. Forse a parte
un po’ di sangue in testa e il torcicollo.
Cosa per cui si mormora che han fatto
uno sgarbo ai cubani a non far fare
l’identico trattamento a Fidel Castro
Ci avevano pensato, e se non l’han fatto,
è perché non ci avevano più corde,
con tutta quella gente appesa al collo.
maggio 2013


Un po’ più in là

Scosta la sedia un po’in più in là, e vedi
sopra di te il cielo e, sotto, il mare,
davanti, ci sta il monte e, dietro, il muro
che delimita l’orto – poca cosa,
due melanzane e un poco d’insalata. –

Tutto è di Dio, ed anche tu e la sedia,
tutto è irreale eppure pare vero,
e pure Dio lassù pare irreale,
veri e irreali il vento e la pioggia,
e la gronda che gocciola tranquilla,
vera e irreale l‘acqua che ne sgoccia,
ed altrettanto il nonno sulla sedia
che chiacchiera più in là, e vero io
che scosto un po’ più in qua la sedia,
dov’era prima, dove non si vede
il sopra, il sotto, il davanti e il dietro,
dove la cicala dorme e il grillo tace,
e pure Dio lassù ci lascia in pace

Una sedia in cielo

Vieni, mi dice, io sono la tua sedia,
avvicinati e sièditi: da anni
ti siedi su di me, da anni appoggi
nello scrivere la schiena al mio schienale,
siediti e poggia i gomiti sul tavolo
e medita: io sono la tua sedia,
un essere di legno, ma ti servo,
mi adoperi se sei stanco o hai da scrivere.

Posso perciò arguire che son utile,
servo a qualche cosa: hanno appurato
che non ci stanno sedie, lassù, in cielo,
portami con te allora quand’è l’ora,
Dio non ha pensato a fare sedie,
diamogli l’esempio, e che si segga,
e la smettano di stare tutti in piedi.

La sapienza di chi non c’è

Mi affascina lo starmene seduto,
il fascino della sedia, – con la gente
che accanto a me è seduta a chiacchierare
e tanto più chiacchiera e meno dice.

Mi affascina e mi turba l’ineloquio
di chi non c’è e non può parlare,
l’ineloqio del muto, la presenza
dell’assenza che c’è nella Parola
che chiacchiera e non dice, l’infinito
insito nel finito, nel cadere
dell’attimo che non si sa perché e per chi cade,
senza eco né traccia, il muto e vano
inconoscibile alfabeto del silenzio,
la sapienza di chi non c’è e non parla.

Mi alzo dalla sedia e me ne vado.

Il portatore di luce

La via è angusta e buia, un buio pesto,
un buio tanto buio ove la luce
dei fanali confonde e rende il buio
ancora più profondo. E questo buio
ci indica la via che si ha da fare
per perdere la via e non tornare.

Poi, mentre le porte sono chiuse,
arriva uno, ed entra come un ladro,
fa un po’ di luce ai cuori ed alle stanze,
poi s’allontana, e non viene più,
non viene più, non porta più la luce,
ma il cuore n’è beato anche s’è buio.

Almeno un buco

Dev’esserci pur sempre qualchecosa
(un torsolo, una zampa di gallina,
una ciotola sbeccata, una conchiglia),
insomma, ci ha da essere un qualcosa
in un sogno che sia degno d’esser tale,
impossibile non abbia dentro nulla,
neppure un buco, o ciò che vi sta dentro
( dentro, nel buco, e tu non starmi a dire
che dentro un buco non ci sta che il buco,
senza neppure un ago od un bottone,
un ragno senza tela ). Io, comunque,
son certo che ci debba star qualcosa
nei sogni che si fanno. Almeno un buco,
un buco che sia un buco, un forellino,
piccolo quanto vuoi, ma con qualcosa
dentro d’infilato, un amorucolo
ormai dimenticato, un bacio dato
e perso, un sogno mai sognato,
tutto purché qualcosa, anche un buco
con dentro un altro buco, e, dentro, io,
ma piccolo, piccolissimo, che sogno.

Il videodipendente

Disteso s’una comoda poltrona
a due passi dal frigo e dal video,
stringe il telecomando nella mano,
abbozza uno sbadiglio e stancamente
dà sul pulsante. Un attimo gli basta
al cambio di canale. Un po’ di luce
illumina il suo volto insonnolito,
scialba immagine di un giorno di noia.
Con le palpebre basse, un po’ schifato,
celebra il suo rito giornaliero
di telespettatore indifferente
a quel che sia il programma: Bruno Vespa,
Pippo Baudo, Bonolis: barbiturici,
buoni senz’altro a conciliargli il sonno.

Il gatto dorme sopra i suoi ginocchi,
e anche il canarino è lì che dorme,
tutta la città probabilmente dorme,
anche i colombi sopra il davanzale
e i broccoli nell’orto ed i radicchi,
se potessero, starebbero a dormire,
compresi i pipistrelli e le formiche.

Guarda di tralìce la finestra,
come se aspettasse chissà cosa,
una mano che gli dia la buonanotte
di un angelo, o la coda di una stella
che gli indichi la via che si ha da fare
per raggiungere la camera e dormire.
Poi prende la bussola e il sestante
e lemme lemme se ne va a sognare.

IL CONFERENZIERE

La partenza

Salpa. Ha pagato l’ormeggio,
e ora sul ponte della nave
ferma alla darsena, al limite
tra sonno e veglia, io la vedo, triste
e dolcissima, lontana,
come un filo di voce che si spegne.
In bilico tra notte e giorno,
ora sta per partire. Si protende
quasi a fermare l’onda che la porta
( un attimo d’incertezza e smarrimento ),
grida scarne parole di dolore, vedo
che agita una mano a salutare.
Che senso avrebbe invertire ora
la rotta della nave che salpa,
se il silenzio affossa quest’estate
di una piccola storia e il tempo incalza
e rinnega come fosse un’invenzione,
frutto di fantasia, ciò che ci opprime?
E ancora torna l’ora che ci torce
nello scempio dell’oblio di ciò ch’è stato,
e si dipana una voce ( quale voce? )
e una fresca tristezza nell’attesa
del rullio dello scafo alla risacca.
C’è un filo ancora intatto di memoria,
una parvenza di un po’ di luce,
di un lungo addio strozzato nella gola.

e la gente via via si allontanava
e fui di nuovo nella sala vuota,
senza pubblico, solo io e mia moglie.
Fuori, sì, ma nel mio sogno iniziale,
ero ancora nel mondo dei dormienti,
ma era un sogno tranquillo in un sereno
angolo di un sogno, io e lei seduti
sulle sedie dell’incubo. E pensavo
Dio!, ti ringrazio, era solo un sogno…
Un sogno, sì, ma intanto che sognavo,
l’incubo riprese ad ingoiarmi,
e mi sentivo inerme trascinare
nella sala che pian piano si riempiva
della folla di prima, e si sedeva
via via in silenzio, ferma, ad ascoltare
le mie parole, ed io, a scartabellare
qua e là tra le mie carte, inutilmente,
e mia moglie, Stefano, Rosanna,
e il pubblico, impassibili, in attesa.
Uno sforzo disperato e un incredibile
allucinante uscire da quell’incubo,
e di nuovo mi trovai in quel tranquillo
angolo di sogno, e senza gente,
con l’ultimo che usciva, ormai di spalle.
Solo mia moglie, ed io che la pregavo:
Aiutami !, non voglio prender sonno,
dammi una mano, svegliami se dormo!
Ma ancora due o tre volte, ancora l’incubo,
di nuovo quel sentirmi risucchiare
e resistere aggrappandomi a ogni appiglio,
come un naufrago in procinto di affogare,
e ogni volta il risveglio, non dal sonno,
ma dall’incubo. E la sala ancora vuota,
con l’ultimo che usciva dalla porta,
e la folla, di fuori, a protestare,
a chiedere di sedersi ed ascoltare.
E allora strinsi i pugni e mi sforzai,
con tutta la mia forza, e me ne uscii
da quella sala che tornava zeppa
di una folla incredibile, ma uscivo,
sempre però sognando, ed era un sogno
magnifico, un bosco ed un sentiero
e un tranquillo felice passeggiare
senza più sala, tavolo, cognata,
pubblico, microfono, e Stefano,
e il Cantico dei Cantici. Dormivo
come un quieto normale sognatore,
e dicevo tra me e me: È stato un sogno
da raccontare a lei, appena sveglio,
e sorriderne. E pure lei, nel sonno,
forse, chissà, dormendo, si diceva:
È stato un sogno, solo un sogno, ed al risveglio,
nel fare colazione, gli dirò,
bevendo il mio caffè: È stato un sogno…
20 luglio 2009

POESIE PER NON MORIRE

Una sedia in cielo
Mi hanno detto che c’è una sedia in cielo,
una sola, e ch’è per me, e che mi aspetta,
anzi, mi spetta, gli altri che si arrangino,
se la vogliono occorre prenotarsela,
altrimenti lassù si resta in piedi.

Ma m’han detto che l’hanno posteggiata
in divieto di sosta, per la qual cosa
me l’hanno trasferita giù in inferno.

Pur di non stare per eterno in piedi,
lassù, in paradiso, a malavoglia
ho deciso d’andarmene in inferno.

Il bacio della buona notte

Lo stridere del fuoco nel camino
vìola il silenzio del tinello,
pare la preghiera del crepuscolo
con le lingue di fiamma come mani
ardenti che si giungano
per l’ultimo Avemaria della sera.

Nella luce velata di una lampada,
la romantica allegria delle orchidee
accanto al mio computer. L’ora è quella
che gli angeli lassù vanno a dormire.
Fuori, sta nevicando. Mio fratello
mi prende sottobraccio, e ce ne andiamo
in sogno sù per l’erto acclive
del cielo, a due o tre passi
da Dio, per il consueto
bacio della buona notte.
Con la speranza che sia ancora sveglio


Chi passa di sotto

Sale alla finestra appena aperta il sole,
e il vento si è appena levato,
e nel prato ora canta
laggiù, una cicala.
Non canta,
ma stride. Tersa e chiara
ora è l’aria, e odora d’agosto
la rosa, e sposto con la mano
la tendina e con l’altra
stringo agitando a saluto
chi passa di sotto,
– se passi
qualcuno non so, ma saluto lo stesso,
tanto, non è una cosa che stanchi, –
e ho la faccia sudata dal sole
che imperla la fronte,
e saluto
pure la mosca
che ronza volando sul mento,
non mi va di darle lo sfratto,
è ridicolo, lo so,
ma talora
ho la strana percezione
che tutti han diritto di vivere,
chi passa di sotto o non passa,
a tutti un cenno di mano, un sorriso,
uno sguardo d’intesa.
A tutti,
sì, anche alla mosca.

Nell’anticamera dell’Altrove

Entriamo. C’è un’aria di zolfo.
Dici: Credo
che sia l’Inferno.
Trema un palpito di fuoco,
ne senti l’acre fumo e sa di brace
dai visceri di un abisso.
Un fumo che intossica ed acceca.
Dici: Usciamo,
se si è in tempo.
Ma non con l’alibi della paura,
qui si soffoca su orli ed arabeschi
di braci di crateri.
Non è igienico,
credimi, e inoltre c’è un ristagno
di un lezzo di pece e carne guasta,
non di vinello caldo che corrobora.
Senti,
ci sfiora un pipistrello,
passa di volo, nero di carbone.
Dici: Forse è il diavolo.
Usciamo,
torniamocene a casa, forse è meglio.
Si esce, nel sole, nudi,
il vento in poppa,
liberi e felici, senza il corpo,
il nostro vecchio abito
dismesso.


Dio, sai ch’esisto

Dio, prendi quello che ti spetta,,
non me, tu sai ch’io non ho niente
da contraltare, perciò per te è sprecato
fiato parlarmi, ma dimmi qualche cosa,
sfòrzati, io poco o nulla attendo:
tanto, attendere non serve quasi a niente,
toglimi anche il quasi,
ricòrdati di me, comunque,
io sono come tu mi hai fatto,
forse, non so, potevi farmi meglio,
volendolo. Io sono quel che sono,
di più non ce la faccio. Dio,
In ogni caso sai che io esisto.
Stavolta ti perdono

Mi capita qualche volta di svegliarmi
in perfetta armonia col mondo,
e tutto ciò con cui mi tocca fare,
pur essendo la solita minestra,
mi pare gustosissimo:
il caffè,
il bar, la strada, il ciao dei tuoi colleghi,
tutto è lì pronto a darmi il benvenuto
nel giorno tutto sole.
A chissà quanti
amici o conoscenti, che ci stanno
accanto, gli passa per la testa
pensieri disperati,
chissà quanti
buongiorno ci nascondono
una voglia di piangere e gridare?
L’altro giorno ho letto
s’un giornale
che Piero, il giornalaio, dove compero
tutti i giorni il mio solito quotidiano,
si è buttato giù dal quarto piano
dell’ospedale.
Proprio lui, sì, Piero,
quello dagli occhi di un azzurro chiaro
che sorrideva a tutti di un sorriso
gioioso ed amichevole…
Pensavo
forse è uno scherzo, o forse è un altro Piero,
non quello dallo sguardo mite e buono
che ti dice sorridendo: Ecco il resto,
grazie, e arrivederci…
Il giornalaio,
sì, non un amico, una persona
affabile, che incontri tutti i giorni
andandotene al lavoro, un:
Ecco il resto,
sì, e una rabbia:
Ma come? oh no, Piero,
ma perché? Tu che avevi una parola
buona per tutti, tu, lo sguardo allegro
e il sorriso sempre pronto sulle labbra,
dimmi: perché ?
Stavolta ti perdono,
vorrei però abbracciarti, dirti: Piero,
però non farlo più, mi raccomando,
un’altra volta no,
Tra veglia e dormiveglia

Sulla soglia del sonno traspare
una vampata di morte memorie,
trema, scompare e riappare.
Naviga
nell’ombra del sonno
una barca, o almeno così pare,
la vedo – o la sogno, – in un cielo
blu indaco, più lieve di una farfalla,
va su onde che schiumano incenso
alla rada, e stupito
e sgomento mi sbraccio:
Va via,
allontànati, e più non tornare
nel mondo del sonno…Una musica
l’alitare di labbra dormenti
del vento.
Il sonno…
Fulgore senz’ambra
nel lavacro del buio che avvolge
la mia stanza da letto.
Una ridda
di voci e creature che vanno
fuggendo nel cipiglio dell’alba.
Paure e pulsioni, naufragio
su una spiaggia deserta, sciacquio
altalenante di sonno e di veglia.
E tutto si attorce
in spirali di luce
e di buio. Un sussulto
l’uscita dal sonno. Un soffio
di labbra il grido di gioia
del naufrago. E il fischio di un merlo,
il prodigio del giorno
che nasce.

Il mare ha la libertà di fare il mare

Il mare ha la libertà
di fare il mare,
e schiuma, ondeggia, s’accavalla, rugge,
corre di qua e di là, va avanti e indietro
in un via vai di acqua sulla spiaggia,
a volte freme, suona e a volte arpeggia,
musica che solo Dio
sa far suonare.
Il mare ha la libertà di fare il mare.
Anche il poeta
ha la libertà del mare,
e mette giù due versi e li cancella,
toglie una parola che non suona,
ne cerca una facile all’arpeggio,
ne guida il ritmo,
sillabe di canto
sullo spartito della metrica, ne accentua
a orecchio una vocale, affina il verso
che danzi sulle labbra e lasci un suono
armonico all’udito.
Come il mare,
il verso, una musica che suona
sullo spartito di Dio, il verso e il mare,
canto di poesia,
canto di mare.

VIVA LA POESIA

Nell’angolo dell’orto

C’è sempre più buio in codesto
angolo di orto.
Cerco a naso,
il fiuto o l’odore mi facilita
la cosa, e tasto l’insalata
e, s’una foglia, un coso – pare un bruco, –
poi tento l’avventura e vado a caso
nel buio e m’inciampo s’un fagiolo :
no, non mi sbaglio, pare un elefante,
ma pare, è solo, a quanto pare,
uno – come si dice? – un coso, sì, un baccello,
che altro vuoi che sia?
Un pachiderma ?
Tutto nel buio è maestosamente grande,
lo affermo senza scrupoli di sorta,

figùrati poi un pisello, un cosettino
misero, un minuscolo pisello,
che nel buio diventa mastodontico,
di più di una sequoia.
E’ Dio che vuole
dare la dignità del grande
al piccolo, però con discrezione
e tatto , e lo fa solo nel buio
angolo di un orto. E Lui sa farlo,
sa accorciare il lungo ed allungare
il corto, e dare la presenza
all’assenza, e pure all’incontrario,
l’assenza la fa atto di presenza.
Dimostralo che non è vero, e se ti riesce,
smentiscimi. Ma tanto sai ch’è vero,
basta che Dio lo voglia, anche il non vero,
la pulce la può fare pachiderma,
il pachiderma pulce.
E ’qui nell’orto,
nel buio, che t’inciampi in un pisello,
o calpesti camminando un elefante.

L’altra eternità

Vivo? Non so…Ma sì, insisto,
so che ce la faccio,
sono un duro,
resisto ad ogni fatto, avvenimento,
contrarietà, seguendo alla bisogna
le tracce che ha lasciato camminando
mio padre, le scopro fra le tante,
non però nascoste,
hanno l’impronta
che basta a rintracciarle, anche solo
rapida un’occhiata, e le distinguo
quel tanto che ci vuole per seguirle.
Ma non sono
un custode smemorato
del suo ricordo, ne odo anche la voce
pensandolo qui accanto a me, seduto
come soleva
sulla sua poltrona
a leggersi il giornale, e ne sorrido,
come sorride a suo padre un figlio
devoto, e senza spiccar motto
e sillaba, io e lui
a chiacchierare
d’accordo tra di noi, e però senza
alcuna ambiguità si mette a fuoco
ogni silenzio e ogni parola che si tace.
Alzo lo sguardo verso la poltrona,
è vuota, però so
ch’è lì seduto,
e tanto silenzioso e trasparente
da essere invisibile, lo vedo
sfioccato come un sogno nel risveglio,
la pipa ed il giornale.
Ma nessuno
lo sa, né ha occhi per vederlo
seduto qui di fronte, e glielo dico,
e lui lo sa ch’è lì, e si sorride
parlandoci così,
senza parole,
scherzosi, come avessimo scoperto
un’altra eternità, un po’ meno lunga
di quella che si sa, però più nostra,
più intima,
direi con più riserbo.
E’ lì, è proprio lì che mi ci vedo
un giorno, anch’io a leggermi il giornalela pipa no, non fumo,-
e a chiacchierare
scherzoso con mio figlio, ed a sorridere
di quelli che non vedono e non sanno,
ma tanto vero
da sembrarci vero.

Piove dove vuole

Lacrime. Come lacrime la pioggia
croscia sui tetti, cade sulle strade,
schizza picchiettando contro i vetri
come per dirci:
Vedi? Son la pioggia…
E l’ascolto in silenzio mentre cade
e bagna i vasi dei gerani in fiore,
( se chiacchieri non la senti picchiettare )
una liquida carezza d’acqua gaia,
non semplice come pensi
né banale,
libera di cadere dove vuole,
di battere leggera ai davanzali
col lieve ticchettio
di una preghiera.
Piove nell’orto dietro casa, dove
qualche sciocca gallina razzolante
cerca qua e là qualcosa da sbeccare.
Piove sulle punte rosa delle viole,
piove dove vuole e quando vuole
con la felicità di chi sa che piove.
alle correnti d’aria e al mal di gola. sognavo,
forse sognavo, e ti vedevo ancora
vivo ascoltare i rospi gracidare
come un addio a un’alba che moriva.
Ma il tempo era in fuga, e c’inseguiva
di ora in ora in una fuga eterna,
e la brezza del vento divorava
le nuvole, strappava alle betulle
la trina delle foglie,
e i ciclamini
sfiorivano morendo alla tristezza
dei petali straziati dalla brina.
E pioveva, pioveva
sullo stagno,
sul cancello dell’orto, sulle chiazze
d’acqua delle pozzanghere, sui pini
avvolti dalla bruma malinconica
di una pioggia silente,
fredda e rada,
che non sembrava pioggia,
ma un sussurro
di angeli in lacrime di aria.
E moriva nella luce dell’aurora
anche il tuo volto,
anche tu fuggivi
col tempo che, nel suo perpetuo affanno,
lasciava a noi un brivido sottile
di passi in corsa e d’echi senza voce.
Rimaneva
impassibile nel tempo
solo lo stagno e il gracidio dei rospi,
senza cerchi
d’acqua né vento o pioggia, ed una luce
d’eternità.
Non tutto ci cancella
il tempo né l’oblio, qualcosa resta.
Resta il tuo nome,
almeno quello, eterno.

Quel tanto o quel poco

Questa notte il prato
è tutto un canto,
ed io l’ascolto, dentro me, in sogno,
un canto di gioia e di dolore
nel lamentoso gemito del vento
ch’è un soffio appena,
un alito di voce
dell’upupa dalla casa diroccata
tra sbrecci e qua e là mucchi di sfasciume.
Quieta
canta la fontana
un fresco filo d’acqua,canta goccia
a goccia, ed io l’ascolto
dentro di me, l’ascolto goccia a goccia
che lentamente, fioca,
si fa sangue,
gocce di sangue fuoco nelle arterie,
un ticchettio di vita nei miei polsi.
Non sai quanta dolcezza
questa notte
nel prato, mi piace, sai, pensare
che viva di non so quante memorie
di grilli, miliardi su miliardi
in secoli e secoli di prato,
guizzi di serpi e gracidii di rane
a far festa alla luna,
oh sì, dio, quante
non sai, ti punge la vaghezza
di fare il rendiconto del passato,
e le senti strisciare tra l’erba
del prato, e pensi poi
a tuo padre,
andando a ritroso, stranito
e commosso, e lo vedi
nel farsi e disfarsi del tempo,
lo vedi tornare, grandioso,
scordato e pensato,
quel poco o quel tanto
per entrarti nel sogno,
tra reale e irreale, con tutte le cose
di un tempo, un sentore di cielo,
un miraggio d’eterno.
Tuo padre
quaggiù, da noi, in terra, e tu in cielo,
lassù, potenza ed impotenza
di Dio e di noi,
un non so che cosa
che forse non si conta, il passato,
il presente e il futuro ti piace pensarli
un’unica cosa. un unico guizzo
di tempo.
Non sai quanta dolcezza
saperlo e volerlo ignorare,
scordare quel tanto o quel poco
che conta, e serrarlo in un pugno
e serbarlo.
E ti piace pensarlo.
Ma è un qualcosa che forse
non conta.
luglio 2013

Il tempo del silenzio

Uno per uno salgono le scale,
bussano all’uscio e fanno il loro nome;
li vedo per un attimo soltanto,
son loro, li conosco, e torna il buio,
e li sento ridiscendere le scale
e chiudersi la porta che dà in strada.
Altri vengono sù con l’ascensore

han camminato a lungo, e sono stanchi -,
bussano piano all’uscio, ed io gli apro,
un attimo di luce sulle scale
mi svela i volti e fanno i loro nomi,
poi subito anche loro se ne vanno;
sento le loro voci giù in istrada
via via affievolirsi e poi morire.

Sono i figli del tempo del silenzio,
li chiamano ricordi .E sono in tanti,
vengono a volte anche da lontano,
e faccio appena in tempo ad ascoltarli,
che subito scompaiono: ne sento
gli echi, qua e là, nel buio giroscale,
e poi smorzarsi, fuori, sulla strada,
uno strascico di voci e di risate.

Oh, come li rivedo, con che gioia
ne ascolto i nomi – un grido od un sussurro –
una o due parole, e poi il buio,
e i passi che discendono di corsa

sempre di corsa, è tardi, ed hanno fretta,
tornano all’oblio – e sento poi la porta
sbattere più e più volte sulla strada
e un correre e gridare ormai lontano.

Mi dico: Non c’è tempo per il tempo,
ma per l’eternità. Solo un’occhiata,
chiudo l’uscio e poi subito discendo
anch’io di corsa – ho fretta – per le scale,
sbatto la porta ed esco e corro e grido,
faccio il mio nome, corro e grido e corro.