VOGLIA DI POESIA


Il Congresso Internazionale dei Duci

Al Congresso Internazionale dei Duci
che quest’anno si celebra in Friuli
a fine settimana, manca il Duce,
l’hanno appeso pei piedi, e non può scendere
visto com’è, impiccato alla rovescia
a testa in giù. Dicono sia stufo
di assistere agli stessi roboanti
noiosissimi discorsi, e poi, tra l’altro,
si pende mica male. Forse a parte
un po’ di sangue in testa e il torcicollo.
Cosa per cui si mormora che han fatto
uno sgarbo ai cubani a non far fare
l’identico trattamento a Fidel Castro
Ci avevano pensato, e se non l’han fatto,
è perché non ci avevano più corde,
con tutta quella gente appesa al collo.
maggio 2013


Un po’ più in là

Scosta la sedia un po’in più in là, e vedi
sopra di te il cielo e, sotto, il mare,
davanti, ci sta il monte e, dietro, il muro
che delimita l’orto – poca cosa,
due melanzane e un poco d’insalata. –

Tutto è di Dio, ed anche tu e la sedia,
tutto è irreale eppure pare vero,
e pure Dio lassù pare irreale,
veri e irreali il vento e la pioggia,
e la gronda che gocciola tranquilla,
vera e irreale l‘acqua che ne sgoccia,
ed altrettanto il nonno sulla sedia
che chiacchiera più in là, e vero io
che scosto un po’ più in qua la sedia,
dov’era prima, dove non si vede
il sopra, il sotto, il davanti e il dietro,
dove la cicala dorme e il grillo tace,
e pure Dio lassù ci lascia in pace

Una sedia in cielo

Vieni, mi dice, io sono la tua sedia,
avvicinati e sièditi: da anni
ti siedi su di me, da anni appoggi
nello scrivere la schiena al mio schienale,
siediti e poggia i gomiti sul tavolo
e medita: io sono la tua sedia,
un essere di legno, ma ti servo,
mi adoperi se sei stanco o hai da scrivere.

Posso perciò arguire che son utile,
servo a qualche cosa: hanno appurato
che non ci stanno sedie, lassù, in cielo,
portami con te allora quand’è l’ora,
Dio non ha pensato a fare sedie,
diamogli l’esempio, e che si segga,
e la smettano di stare tutti in piedi.

La sapienza di chi non c’è

Mi affascina lo starmene seduto,
il fascino della sedia, – con la gente
che accanto a me è seduta a chiacchierare
e tanto più chiacchiera e meno dice.

Mi affascina e mi turba l’ineloquio
di chi non c’è e non può parlare,
l’ineloqio del muto, la presenza
dell’assenza che c’è nella Parola
che chiacchiera e non dice, l’infinito
insito nel finito, nel cadere
dell’attimo che non si sa perché e per chi cade,
senza eco né traccia, il muto e vano
inconoscibile alfabeto del silenzio,
la sapienza di chi non c’è e non parla.

Mi alzo dalla sedia e me ne vado.

Il portatore di luce

La via è angusta e buia, un buio pesto,
un buio tanto buio ove la luce
dei fanali confonde e rende il buio
ancora più profondo. E questo buio
ci indica la via che si ha da fare
per perdere la via e non tornare.

Poi, mentre le porte sono chiuse,
arriva uno, ed entra come un ladro,
fa un po’ di luce ai cuori ed alle stanze,
poi s’allontana, e non viene più,
non viene più, non porta più la luce,
ma il cuore n’è beato anche s’è buio.

Almeno un buco

Dev’esserci pur sempre qualchecosa
(un torsolo, una zampa di gallina,
una ciotola sbeccata, una conchiglia),
insomma, ci ha da essere un qualcosa
in un sogno che sia degno d’esser tale,
impossibile non abbia dentro nulla,
neppure un buco, o ciò che vi sta dentro
( dentro, nel buco, e tu non starmi a dire
che dentro un buco non ci sta che il buco,
senza neppure un ago od un bottone,
un ragno senza tela ). Io, comunque,
son certo che ci debba star qualcosa
nei sogni che si fanno. Almeno un buco,
un buco che sia un buco, un forellino,
piccolo quanto vuoi, ma con qualcosa
dentro d’infilato, un amorucolo
ormai dimenticato, un bacio dato
e perso, un sogno mai sognato,
tutto purché qualcosa, anche un buco
con dentro un altro buco, e, dentro, io,
ma piccolo, piccolissimo, che sogno.

Il videodipendente

Disteso s’una comoda poltrona
a due passi dal frigo e dal video,
stringe il telecomando nella mano,
abbozza uno sbadiglio e stancamente
dà sul pulsante. Un attimo gli basta
al cambio di canale. Un po’ di luce
illumina il suo volto insonnolito,
scialba immagine di un giorno di noia.
Con le palpebre basse, un po’ schifato,
celebra il suo rito giornaliero
di telespettatore indifferente
a quel che sia il programma: Bruno Vespa,
Pippo Baudo, Bonolis: barbiturici,
buoni senz’altro a conciliargli il sonno.

Il gatto dorme sopra i suoi ginocchi,
e anche il canarino è lì che dorme,
tutta la città probabilmente dorme,
anche i colombi sopra il davanzale
e i broccoli nell’orto ed i radicchi,
se potessero, starebbero a dormire,
compresi i pipistrelli e le formiche.

Guarda di tralìce la finestra,
come se aspettasse chissà cosa,
una mano che gli dia la buonanotte
di un angelo, o la coda di una stella
che gli indichi la via che si ha da fare
per raggiungere la camera e dormire.
Poi prende la bussola e il sestante
e lemme lemme se ne va a sognare.

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