POESIE PER NON MORIRE

Una sedia in cielo
Mi hanno detto che c’è una sedia in cielo,
una sola, e ch’è per me, e che mi aspetta,
anzi, mi spetta, gli altri che si arrangino,
se la vogliono occorre prenotarsela,
altrimenti lassù si resta in piedi.

Ma m’han detto che l’hanno posteggiata
in divieto di sosta, per la qual cosa
me l’hanno trasferita giù in inferno.

Pur di non stare per eterno in piedi,
lassù, in paradiso, a malavoglia
ho deciso d’andarmene in inferno.

Il bacio della buona notte

Lo stridere del fuoco nel camino
vìola il silenzio del tinello,
pare la preghiera del crepuscolo
con le lingue di fiamma come mani
ardenti che si giungano
per l’ultimo Avemaria della sera.

Nella luce velata di una lampada,
la romantica allegria delle orchidee
accanto al mio computer. L’ora è quella
che gli angeli lassù vanno a dormire.
Fuori, sta nevicando. Mio fratello
mi prende sottobraccio, e ce ne andiamo
in sogno sù per l’erto acclive
del cielo, a due o tre passi
da Dio, per il consueto
bacio della buona notte.
Con la speranza che sia ancora sveglio


Chi passa di sotto

Sale alla finestra appena aperta il sole,
e il vento si è appena levato,
e nel prato ora canta
laggiù, una cicala.
Non canta,
ma stride. Tersa e chiara
ora è l’aria, e odora d’agosto
la rosa, e sposto con la mano
la tendina e con l’altra
stringo agitando a saluto
chi passa di sotto,
– se passi
qualcuno non so, ma saluto lo stesso,
tanto, non è una cosa che stanchi, –
e ho la faccia sudata dal sole
che imperla la fronte,
e saluto
pure la mosca
che ronza volando sul mento,
non mi va di darle lo sfratto,
è ridicolo, lo so,
ma talora
ho la strana percezione
che tutti han diritto di vivere,
chi passa di sotto o non passa,
a tutti un cenno di mano, un sorriso,
uno sguardo d’intesa.
A tutti,
sì, anche alla mosca.

Nell’anticamera dell’Altrove

Entriamo. C’è un’aria di zolfo.
Dici: Credo
che sia l’Inferno.
Trema un palpito di fuoco,
ne senti l’acre fumo e sa di brace
dai visceri di un abisso.
Un fumo che intossica ed acceca.
Dici: Usciamo,
se si è in tempo.
Ma non con l’alibi della paura,
qui si soffoca su orli ed arabeschi
di braci di crateri.
Non è igienico,
credimi, e inoltre c’è un ristagno
di un lezzo di pece e carne guasta,
non di vinello caldo che corrobora.
Senti,
ci sfiora un pipistrello,
passa di volo, nero di carbone.
Dici: Forse è il diavolo.
Usciamo,
torniamocene a casa, forse è meglio.
Si esce, nel sole, nudi,
il vento in poppa,
liberi e felici, senza il corpo,
il nostro vecchio abito
dismesso.


Dio, sai ch’esisto

Dio, prendi quello che ti spetta,,
non me, tu sai ch’io non ho niente
da contraltare, perciò per te è sprecato
fiato parlarmi, ma dimmi qualche cosa,
sfòrzati, io poco o nulla attendo:
tanto, attendere non serve quasi a niente,
toglimi anche il quasi,
ricòrdati di me, comunque,
io sono come tu mi hai fatto,
forse, non so, potevi farmi meglio,
volendolo. Io sono quel che sono,
di più non ce la faccio. Dio,
In ogni caso sai che io esisto.
Stavolta ti perdono

Mi capita qualche volta di svegliarmi
in perfetta armonia col mondo,
e tutto ciò con cui mi tocca fare,
pur essendo la solita minestra,
mi pare gustosissimo:
il caffè,
il bar, la strada, il ciao dei tuoi colleghi,
tutto è lì pronto a darmi il benvenuto
nel giorno tutto sole.
A chissà quanti
amici o conoscenti, che ci stanno
accanto, gli passa per la testa
pensieri disperati,
chissà quanti
buongiorno ci nascondono
una voglia di piangere e gridare?
L’altro giorno ho letto
s’un giornale
che Piero, il giornalaio, dove compero
tutti i giorni il mio solito quotidiano,
si è buttato giù dal quarto piano
dell’ospedale.
Proprio lui, sì, Piero,
quello dagli occhi di un azzurro chiaro
che sorrideva a tutti di un sorriso
gioioso ed amichevole…
Pensavo
forse è uno scherzo, o forse è un altro Piero,
non quello dallo sguardo mite e buono
che ti dice sorridendo: Ecco il resto,
grazie, e arrivederci…
Il giornalaio,
sì, non un amico, una persona
affabile, che incontri tutti i giorni
andandotene al lavoro, un:
Ecco il resto,
sì, e una rabbia:
Ma come? oh no, Piero,
ma perché? Tu che avevi una parola
buona per tutti, tu, lo sguardo allegro
e il sorriso sempre pronto sulle labbra,
dimmi: perché ?
Stavolta ti perdono,
vorrei però abbracciarti, dirti: Piero,
però non farlo più, mi raccomando,
un’altra volta no,
Tra veglia e dormiveglia

Sulla soglia del sonno traspare
una vampata di morte memorie,
trema, scompare e riappare.
Naviga
nell’ombra del sonno
una barca, o almeno così pare,
la vedo – o la sogno, – in un cielo
blu indaco, più lieve di una farfalla,
va su onde che schiumano incenso
alla rada, e stupito
e sgomento mi sbraccio:
Va via,
allontànati, e più non tornare
nel mondo del sonno…Una musica
l’alitare di labbra dormenti
del vento.
Il sonno…
Fulgore senz’ambra
nel lavacro del buio che avvolge
la mia stanza da letto.
Una ridda
di voci e creature che vanno
fuggendo nel cipiglio dell’alba.
Paure e pulsioni, naufragio
su una spiaggia deserta, sciacquio
altalenante di sonno e di veglia.
E tutto si attorce
in spirali di luce
e di buio. Un sussulto
l’uscita dal sonno. Un soffio
di labbra il grido di gioia
del naufrago. E il fischio di un merlo,
il prodigio del giorno
che nasce.

Il mare ha la libertà di fare il mare

Il mare ha la libertà
di fare il mare,
e schiuma, ondeggia, s’accavalla, rugge,
corre di qua e di là, va avanti e indietro
in un via vai di acqua sulla spiaggia,
a volte freme, suona e a volte arpeggia,
musica che solo Dio
sa far suonare.
Il mare ha la libertà di fare il mare.
Anche il poeta
ha la libertà del mare,
e mette giù due versi e li cancella,
toglie una parola che non suona,
ne cerca una facile all’arpeggio,
ne guida il ritmo,
sillabe di canto
sullo spartito della metrica, ne accentua
a orecchio una vocale, affina il verso
che danzi sulle labbra e lasci un suono
armonico all’udito.
Come il mare,
il verso, una musica che suona
sullo spartito di Dio, il verso e il mare,
canto di poesia,
canto di mare.

3 pensieri su “POESIE PER NON MORIRE

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