VIVA LA POESIA

Nell’angolo dell’orto

C’è sempre più buio in codesto
angolo di orto.
Cerco a naso,
il fiuto o l’odore mi facilita
la cosa, e tasto l’insalata
e, s’una foglia, un coso – pare un bruco, –
poi tento l’avventura e vado a caso
nel buio e m’inciampo s’un fagiolo :
no, non mi sbaglio, pare un elefante,
ma pare, è solo, a quanto pare,
uno – come si dice? – un coso, sì, un baccello,
che altro vuoi che sia?
Un pachiderma ?
Tutto nel buio è maestosamente grande,
lo affermo senza scrupoli di sorta,

figùrati poi un pisello, un cosettino
misero, un minuscolo pisello,
che nel buio diventa mastodontico,
di più di una sequoia.
E’ Dio che vuole
dare la dignità del grande
al piccolo, però con discrezione
e tatto , e lo fa solo nel buio
angolo di un orto. E Lui sa farlo,
sa accorciare il lungo ed allungare
il corto, e dare la presenza
all’assenza, e pure all’incontrario,
l’assenza la fa atto di presenza.
Dimostralo che non è vero, e se ti riesce,
smentiscimi. Ma tanto sai ch’è vero,
basta che Dio lo voglia, anche il non vero,
la pulce la può fare pachiderma,
il pachiderma pulce.
E ’qui nell’orto,
nel buio, che t’inciampi in un pisello,
o calpesti camminando un elefante.

L’altra eternità

Vivo? Non so…Ma sì, insisto,
so che ce la faccio,
sono un duro,
resisto ad ogni fatto, avvenimento,
contrarietà, seguendo alla bisogna
le tracce che ha lasciato camminando
mio padre, le scopro fra le tante,
non però nascoste,
hanno l’impronta
che basta a rintracciarle, anche solo
rapida un’occhiata, e le distinguo
quel tanto che ci vuole per seguirle.
Ma non sono
un custode smemorato
del suo ricordo, ne odo anche la voce
pensandolo qui accanto a me, seduto
come soleva
sulla sua poltrona
a leggersi il giornale, e ne sorrido,
come sorride a suo padre un figlio
devoto, e senza spiccar motto
e sillaba, io e lui
a chiacchierare
d’accordo tra di noi, e però senza
alcuna ambiguità si mette a fuoco
ogni silenzio e ogni parola che si tace.
Alzo lo sguardo verso la poltrona,
è vuota, però so
ch’è lì seduto,
e tanto silenzioso e trasparente
da essere invisibile, lo vedo
sfioccato come un sogno nel risveglio,
la pipa ed il giornale.
Ma nessuno
lo sa, né ha occhi per vederlo
seduto qui di fronte, e glielo dico,
e lui lo sa ch’è lì, e si sorride
parlandoci così,
senza parole,
scherzosi, come avessimo scoperto
un’altra eternità, un po’ meno lunga
di quella che si sa, però più nostra,
più intima,
direi con più riserbo.
E’ lì, è proprio lì che mi ci vedo
un giorno, anch’io a leggermi il giornalela pipa no, non fumo,-
e a chiacchierare
scherzoso con mio figlio, ed a sorridere
di quelli che non vedono e non sanno,
ma tanto vero
da sembrarci vero.

Piove dove vuole

Lacrime. Come lacrime la pioggia
croscia sui tetti, cade sulle strade,
schizza picchiettando contro i vetri
come per dirci:
Vedi? Son la pioggia…
E l’ascolto in silenzio mentre cade
e bagna i vasi dei gerani in fiore,
( se chiacchieri non la senti picchiettare )
una liquida carezza d’acqua gaia,
non semplice come pensi
né banale,
libera di cadere dove vuole,
di battere leggera ai davanzali
col lieve ticchettio
di una preghiera.
Piove nell’orto dietro casa, dove
qualche sciocca gallina razzolante
cerca qua e là qualcosa da sbeccare.
Piove sulle punte rosa delle viole,
piove dove vuole e quando vuole
con la felicità di chi sa che piove.
alle correnti d’aria e al mal di gola. sognavo,
forse sognavo, e ti vedevo ancora
vivo ascoltare i rospi gracidare
come un addio a un’alba che moriva.
Ma il tempo era in fuga, e c’inseguiva
di ora in ora in una fuga eterna,
e la brezza del vento divorava
le nuvole, strappava alle betulle
la trina delle foglie,
e i ciclamini
sfiorivano morendo alla tristezza
dei petali straziati dalla brina.
E pioveva, pioveva
sullo stagno,
sul cancello dell’orto, sulle chiazze
d’acqua delle pozzanghere, sui pini
avvolti dalla bruma malinconica
di una pioggia silente,
fredda e rada,
che non sembrava pioggia,
ma un sussurro
di angeli in lacrime di aria.
E moriva nella luce dell’aurora
anche il tuo volto,
anche tu fuggivi
col tempo che, nel suo perpetuo affanno,
lasciava a noi un brivido sottile
di passi in corsa e d’echi senza voce.
Rimaneva
impassibile nel tempo
solo lo stagno e il gracidio dei rospi,
senza cerchi
d’acqua né vento o pioggia, ed una luce
d’eternità.
Non tutto ci cancella
il tempo né l’oblio, qualcosa resta.
Resta il tuo nome,
almeno quello, eterno.

Quel tanto o quel poco

Questa notte il prato
è tutto un canto,
ed io l’ascolto, dentro me, in sogno,
un canto di gioia e di dolore
nel lamentoso gemito del vento
ch’è un soffio appena,
un alito di voce
dell’upupa dalla casa diroccata
tra sbrecci e qua e là mucchi di sfasciume.
Quieta
canta la fontana
un fresco filo d’acqua,canta goccia
a goccia, ed io l’ascolto
dentro di me, l’ascolto goccia a goccia
che lentamente, fioca,
si fa sangue,
gocce di sangue fuoco nelle arterie,
un ticchettio di vita nei miei polsi.
Non sai quanta dolcezza
questa notte
nel prato, mi piace, sai, pensare
che viva di non so quante memorie
di grilli, miliardi su miliardi
in secoli e secoli di prato,
guizzi di serpi e gracidii di rane
a far festa alla luna,
oh sì, dio, quante
non sai, ti punge la vaghezza
di fare il rendiconto del passato,
e le senti strisciare tra l’erba
del prato, e pensi poi
a tuo padre,
andando a ritroso, stranito
e commosso, e lo vedi
nel farsi e disfarsi del tempo,
lo vedi tornare, grandioso,
scordato e pensato,
quel poco o quel tanto
per entrarti nel sogno,
tra reale e irreale, con tutte le cose
di un tempo, un sentore di cielo,
un miraggio d’eterno.
Tuo padre
quaggiù, da noi, in terra, e tu in cielo,
lassù, potenza ed impotenza
di Dio e di noi,
un non so che cosa
che forse non si conta, il passato,
il presente e il futuro ti piace pensarli
un’unica cosa. un unico guizzo
di tempo.
Non sai quanta dolcezza
saperlo e volerlo ignorare,
scordare quel tanto o quel poco
che conta, e serrarlo in un pugno
e serbarlo.
E ti piace pensarlo.
Ma è un qualcosa che forse
non conta.
luglio 2013

Il tempo del silenzio

Uno per uno salgono le scale,
bussano all’uscio e fanno il loro nome;
li vedo per un attimo soltanto,
son loro, li conosco, e torna il buio,
e li sento ridiscendere le scale
e chiudersi la porta che dà in strada.
Altri vengono sù con l’ascensore

han camminato a lungo, e sono stanchi -,
bussano piano all’uscio, ed io gli apro,
un attimo di luce sulle scale
mi svela i volti e fanno i loro nomi,
poi subito anche loro se ne vanno;
sento le loro voci giù in istrada
via via affievolirsi e poi morire.

Sono i figli del tempo del silenzio,
li chiamano ricordi .E sono in tanti,
vengono a volte anche da lontano,
e faccio appena in tempo ad ascoltarli,
che subito scompaiono: ne sento
gli echi, qua e là, nel buio giroscale,
e poi smorzarsi, fuori, sulla strada,
uno strascico di voci e di risate.

Oh, come li rivedo, con che gioia
ne ascolto i nomi – un grido od un sussurro –
una o due parole, e poi il buio,
e i passi che discendono di corsa

sempre di corsa, è tardi, ed hanno fretta,
tornano all’oblio – e sento poi la porta
sbattere più e più volte sulla strada
e un correre e gridare ormai lontano.

Mi dico: Non c’è tempo per il tempo,
ma per l’eternità. Solo un’occhiata,
chiudo l’uscio e poi subito discendo
anch’io di corsa – ho fretta – per le scale,
sbatto la porta ed esco e corro e grido,
faccio il mio nome, corro e grido e corro.

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